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Avviso

La sopravvivenza della specie politica

Mp – 12 maggio 2012

 

In fondo la “bellezza” dell’Autonomia risiede nel fatto che in questo “ambiente” politico-istituzionale il libero arbitrio (ovvero il potere politico) diventando sostanza immediatamente agibile può essere esercitato veramente in concreto, sia nel bene che nel male, assumendone le conseguenze e la responsabilità che esso comporta. Di fronte ai tempi che cambiano, l’autonomia dovrebbe quindi essere il non plus ultra, il miglior antidoto politico alle crisi per potersi adattare nel modo più rapido e idoneo alle crescenti avversità esterne. Non è fuori luogo ricordare che in natura le specie che sono riuscite a sopravvivere e ad evolversi in situazioni precarie sono indubbiamente quelle che sono state in grado di adattarsi alle mutate condizioni dell’ambiente. Per questo, mutuando il concetto dalla natura, è indubbio che la grave crisi attuale impone di saper fare al più presto delle scelte per poter “sopravvivere”, e chi in Italia può/potrebbe farle più in libertà, per così dire, sono proprio i territori autonomi, province e regioni come il nostro Trentino, in genere sempre citato altrove come esempio da imitare.

Eppure assistiamo in questi giorni a comportamenti “virtuosi” da parte di regioni che mai in passato hanno dato prova di saper anticipare in qualche modo il presunto virtuosismo della Provincia Autonoma di Trento. Mi riferisco in particolare alla Sicilia, Regione Autonoma, che nella sua proverbiale incapacità di governo ha dato tuttavia un segnale di saper cambiare per affrontare la crisi, ma, cosa più probabile, per dare una risposta ad una situazione di rabbia crescente fra l’opinione pubblica che rischia di travolgere alla lunga i partiti e le istituzioni. L’ha fatto con un semplice provvedimento di legge tagliando le indennità degli assessori, il numero dei consiglieri (ora 70 per un totale di circa 5.000.000 abitanti) il numero dei funzionari, le auto blu, i permessi per i dipendenti e pure le spese telefoniche. Razionalizzazione la chiamano, anche se si tratta comunque di una drastica diminuzione della spesa. Staremo a vedere.

Sempre rimanendo in ambito isolano, la Sardegna - pure Regione Autonoma - domenica 6 maggio ha fatto ancora di più votando in massa e facendo passare ben dieci referendum che prevedevano fra l’altro l’abolizione di quattro nuove province istituite in maniera irresponsabile qualche anno fa. Non solo: i sardi si sono dichiarati favorevoli anche all’abolizione delle loro province storiche, ritenendo per i propri abitanti (1.700.000) che i Comuni e la Regione evidentemente possano assolvere anche le funzioni oggi in capo alle Province. Inoltre verranno tagliate le indennità e ridotto da 80 a 50 il numero dei consiglieri regionali. Infine con il voto, i sardi hanno chiesto di istituire un’Assemblea costituente per riscrivere lo Statuto della Regione Autonoma. Tutto questo nonostante l’oscuramento dell’appuntamento referendario messo in atto dagli organi di stampa e la solita idiota raccomandazione di andare al mare da parte di qualche politico interessato. Complimenti! Ammirevole - se paragonata a quanto successo invece da noi con il referendum sulle Comunità di Valle - la dichiarazione di Ugo Cappellacci Presidente della Regione: “La partecipazione in massa ai referendum rappresenta una vittoria per la Sardegna e per tutti i sardi. I cittadini si riappropriano degli spazi della politica e danno essi stessi impulso ad una nuova stagione di cambiamento non più rinviabile, che deve coinvolgere l’intera società sarda. Al di là delle appartenenze di ciascuno, bisogna cogliere questo messaggio responsabile e la volontà di una Sardegna che intende decidere il proprio futuro con scelte di rottura con il passato”.

Quello che è importante comunque in tutto questo, è che la Sardegna e la Sicilia hanno saputo dare un segnale di speranza alla crisi che oltre ad essere economica è anche psicologica perché toglie quelle certezze su cui si fondava fino a pochi anni fa la quotidianità della gente comune: i diritti, il lavoro, la casa, persino ora la moneta e l’Europa. E’ un passaggio essenziale, anche se non risolutivo, se si vuole ridare credibilità alla politica e ai partiti prima che l’onda della protesta spazzi via il buono con il cattivo. Un passaggio forse più psicologico che economico che suona nei confronti dei cittadini come un “ti ascolto e ti capisco”, “inizio io per primo”, “mi sta a cuore quello rappresenti”.

Non mi pare che in Trentino sia successo o stia per succedere qualcosa di analogo. Per questo mi chiedo se ci consideriamo extraterritoriali oppure se abbiamo la presunzione di ritenerci indenni da una crisi galoppante che non risparmierà nessuno. Eppure di tagli ai costi dell’apparato politico qui non si parla (seriamente s’intende); i consiglieri provinciali, considerati al rango di quelli regionali, si sono ridotti l’indennità di una cifra una tantum ridicola, e il loro numero è di ben 43 (35 consiglieri + 8 assessori) per una popolazione appena superiore ai 500.000 abitanti; le consulenze esterne e i Consigli di amministrazione di enti e agenzie provinciali qui si sprecano e non si contano. Eppure quello accaduto con le ultime elezioni amministrative (ascesa del Movimento 5 Stelle di Grillo), quanto successo in Sicilia e Sardegna e anche ciò che è avvenuto in Trentino con il referendum sulle Comunità di Valle (una valanga di voti contro quello che è stato considerato uno spreco) stanno lì a significare che - se la politica non dà segni di vita – alla lunga la gente si impossessa democraticamente dei propri poteri, anche contro il volere dei partiti di maggioranza. A meno che non si perseveri nel definire “strumentali e demagogici” quelle votazioni e quei referendum che quando istituiti diventano patrimonio di tutti. A meno che non si vada a dire che i cittadini quando votano sono veri coglioni (ricordate?) solo quando esprimono nell’urna un parere che noi non condividiamo.
E noi trentini? Nessun vero segnale dal Consiglio...

Lasciando perdere il feticcio-miraggio della “crescita infinita”, due sono in realtà le opzioni concrete e immediate da poter attuare in emergenza: aumento delle entrate e diminuzione della spesa. Per le prime ci sta pensando in maniera del tutto discutibile il presidente Monti. Per le seconde pure il Trentino, localmente, può fare la sua parte partendo anche da quanto può dare di suo la classe dirigente per concedere quel minimo di credibilità e di fiducia ai partiti richiesta da più parti. Consapevoli che se queste scelte le farà spontaneamente la politica attraverso la generosità e l’onestà dei suoi uomini, bene. Altrimenti saranno direttamente i cittadini a prendere in mano il proprio destino e a decidere autonomamente, anche in barba alla nostra tanto declamata autonomia.

Il comune al centro

Una proposta alternativa al di là del e del No alle Comunità di Valle
Mp - 22 febbraio 2012 
 

Il Referendum sulle Comunità di Valle che chiamerà il 29 aprile i trentini ad esprimersi, è nato evidentemente anche con fini strumentali e demagogici. Non possiamo nasconderlo, ma non possiamo neppure nascondere il fatto che nel momento in cui un referendum viene istituito, esso diventa indistintamente patrimonio di tutti, portando con sé il significato stesso della democrazia e l’essenza più alta della partecipazione dei cittadini al bene comune.

Sinistra Ecologia Libertà del Trentino in vista di questo importante appuntamento desidera esprimere delle valutazioni il più possibile nel merito della questione e vuole farlo assolutamente libera da pregiudizi ideologici o da fini opportunistici, semplicemente tenendo conto di una visione franca ed aperta sulla società trentina. In tal senso Sel del Trentino intende assumere una posizione diversa da quella espressa recentemente da altri soggetti politici, i quali invitano i cittadini a votare essenzialmente Sì, No, oppure a disertare vergognosamente le urne, senza peraltro entrare nelle argomentazioni del problema. Lo fa attraverso una posizione più “alta” e responsabile la quale, nell’indicare la strada delle C.d.V. come un percorso da un futuro incerto, prospetta in alternativa pure una proposta di quello che potrebbe essere un impianto politico-amministrativo atto a garantire comunque un “livello intermedio” fra Provincia e comuni. Un livello prettamente di servizio e il più possibile “leggero”, sobrio economicamente e svincolato da qualsiasi logica che intenda aggiungere ulteriori organismi elettivi che non servono assolutamente allo scopo di migliorare e rendere più efficace la risposta delle istituzioni ai bisogni dei cittadini.

La proposta – lungi dall’essere un progetto compiuto – si articola in tre punti: cultura, politica, amministrazione.

 

 

 

 

  1. UNA CULTURA NUOVA DI COMUNITA’: SENTIRE IL PROPRIO COMUNE COME LUOGO APERTO NEL TERRITORIO.

 

 

 

Una nuova cultura civica non passa attraverso la proliferazione di enti pubblici (Asuc, Bim, Circoscrizioni, Comuni, Comunità di Valle, Consiglio delle autonomie, Provincia, Regione…), ma parte dal concetto storico di origine, quello cioè di dare centralità al Comune come luogo più naturale e più vicino ai cittadini. E’ questo il cosiddetto “principio di sussidiarietà” il quale sostiene che la gestione amministrativa della “cosa pubblica”, per quanto possibile deve essere affidata all’ente più vicino ai cittadini, ovvero al Comune. Nel contesto trentino oggi è possibile farlo solo superando le C.d.V. e solo attraverso un impianto normativo semplificato che ridia importanza alle municipalità, che sostenga il senso di appartenenza al “proprio” comune e che, al tempo stesso, fornisca mezzi per oltrepassare i “campanili” in un’ottica di aperta collaborazione con il territorio.

 

Infatti, se è vero che negli anni è venuto a mancare un sano spirito di appartenenza, è anche vero che si è affievolita la consapevolezza delle responsabilità singole e collettive nei destini della propria comunità e del proprio territorio. Quasi come non sia “cosa propria” il luogo in cui si vive, quasi che i soldi pubblici siano soldi di nessuno e non di tutti, si è lasciato abbandonare colpevolmente l’idea che sia proprio il cittadino il primo custode del suo territorio. Così, forse per incuria culturale da una parte, ma sicuramente per l’enorme abbondanza di risorse a pioggia e per una certa politica di potere e affari che non voleva avere né critici, né controllori dall’altra, dapprima si è depotenziata la figura del cittadino e ora, attraverso l’istituzione delle C.d.V. si vorrebbe fare altrettanto con i comuni. In tale preoccupante orizzonte si impone un atto di coraggio, una “terapia d’urto” che parta dalla soppressione delle C.d.V. così strutturate e che arrivi a nuovi strumenti di vera democrazia e di partecipazione. In altre parole, il futuro del Trentino non può che passare necessariamente attraverso una coscienza comunitaria “estesa”, dove i cittadini e le istituzioni siano funzionali al “benessere” dello stare e del crescere insieme e dove le collaborazioni non siano forzate o fittizie, bensì provenienti dal basso in un’elaborazione culturale di condivisa volontarietà.

 

 

  1. IL CITTADINO, IL COMUNE, L’UNIONE COME ELEMENTI DI UN UNICO PROGETTO POLITICO.

 

 

 

Avviare un progetto culturale così ambizioso, non è tuttavia possibile con i metodi sinora utilizzati dalla politica egemone in Trentino. Presidiare politicamente tutto il territorio, occupando di fatto il potere attraverso i vari enti che già esistono ed aggiungendo ad essi pure le C.d.V., non può liberare le forze necessarie per avviare una “vera” riforma culturale prima che amministrativa.

In altre parole, il Trentino non ha bisogno di un’ulteriore classe politica (quella delle Comunità di Valle), né ha la necessità di omologare il sistema amministrativo all’unico modello politico-partitico finora dominante, anzi! Purtroppo non è più possibile trascurare il pericolo che pare sottostare all’articolazione delle C.d.V. Infatti, uno degli scopi neppure tanto occulti per cui sono state create è anche quello di controllare il consenso sui territori attraverso la leva dei progetti, dei contributi, dei trasferimenti di denaro, della nomina dei referenti locali. Proprio per questo motivo, il rischio concreto che corre il Trentino (paradossalmente in posizione di retroguardia rispetto al resto d’Italia) è quello che il Comune perda definitivamente il ruolo di interprete principale delle istanze dei cittadini e che dall’impotenza e dalla disaffezione delle comunità locali si giunga – complice anche il particolare sistema elettorale - alla definitiva “cristallizzazione” del potere politico su tutti i territori, con liste e programmi replicanti ovunque all’interno delle sedici C.d.V., il governo provinciale.

 

Contrariamente, invece, utilizzando un’altra chiave di lettura sarebbe da ritenersi una preziosa risorsa la “diversità” dei territori, sia per riconoscere ad essi storie e bisogni particolari, sia per stimolare nei cittadini uno spirito di partecipata democrazia che le attuali Comunità di Valle, proprio per la loro omologazione, non possono assolutamente garantire. Il fatto è che mentre da una parte esistono vari “collage” di esigenze diverse nei singoli comuni del Trentino, dall’altra non è possibile ricondurre il tutto ad un unico modello di comunità. Ed è proprio questa consapevolezza che manca al progetto delle C.d.V. La consapevolezza che una “comunità” non può avere fondamento grazie ad un mero disegno geografico che ne traccia i confini, bensì che essa può nascere e crescere solo attraverso il principio di associazionismo che si costituisce in modo spontaneo per fare fronte a bisogni e aspettative simili, dove gli attori - i cittadini - senza forzature di sorta, si riconoscono a vicenda e si riconoscono in un’unica storia e, dunque, in un’unica vera comunità.

 

Per questo motivo la parola d’ordine non può essere “omologazione” ad un identico modello, ma diventano prioritarie, invece, le parole “riconoscimento”, “omogeneità”, “appartenenza”, “volontarietà”, in modo tale che in quest’ottica, risulta anche più semplice affrontare una questione di cui si parla da tanto tempo e ora diventata ancor più di attualità: la necessità di fare “massa critica” fra i molti piccoli comuni del Trentino che altrimenti da soli rischiano di trovarsi in gravi difficoltà sia economiche che amministrative. Un quadro di “frammentazione istituzionale” che certamente rappresenta la ricchezza e la democrazia della nostra Autonomia, ma che, nella gestione efficiente dei servizi, ne denuncia pure il limite e le evidenti criticità.

In questo senso, per superare una difficoltà fisiologica della terra trentina, in luogo delle farraginose e antistoriche C.d.V., pare logico incentivare ed estendere modelli semplici e graduali di reciproca collaborazione partendo innanzitutto dai liberi Consorzi fra Comuni, passando successivamente per le Unioni comunali in aree omogenee così da favorire un dialogo “più stretto” fra quelle realtà confinanti che contano poche migliaia di abitanti, per arrivare infine - con tempi e modalità adeguate, come nel caso della Valle di Ledro - all’eventuale Fusione di più municipalità in un unico comune. Tutto ciò attraverso scelte decise volontariamente all’interno delle singole comunità e comunque proiettate al futuro così da permettere a tutti i comuni trentini, indipendentemente dalla loro grandezza, di esercitare in forma associata tutte le funzioni per potersi ben amministrare e per raggiungere quella vera autonomia di cui, paradossalmente, godono gli altri comuni d’Italia già da molti anni.

 

 

 

 

  1. AMMINISTRARE UN COMUNE, AMMINISTRARE UNA COMUNITA’.

 

 

 

Risulta evidente, alla luce di quanto detto, come il quadro istituzionale vada riformato o abolendo i Comuni più piccoli, oppure - come sostiene SEL del Trentino - trovando la sintesi fra “campanile” (il senso positivo di appartenenza ad una comunità) e il “campanilismo”, inteso come dimensione chiusa ed egoistica per la quale tutti i comuni – indistintamente, anche quelli di poche centinaia di abitanti - devono tuttora avere, ad esempio, il campo da calcio, la caserma dei pompieri, oppure l’ufficio tecnico, l’anagrafe, la ragioneria, i vigili, ecc. Ma è proprio necessario, ci si chiede, questo inutile spreco di risorse e di denaro?

Se questo, dunque, è il bisogno, come intervenire in maniera appropriata e soprattutto con quali strumenti operativi per mettere “in comune” servizi, strutture, risorse umane ed economiche?

Senza inventare nulla di nuovo e concedendo la dignità e la libertà che ogni comune si merita, la soluzione più semplice e più efficace non potrà che essere quella di affidare la gestione dei vari servizi comunali e delle loro rispettive articolazioni sul territorio ad un organismo tecnico (il nome poco importa) che veda nella figura dei rappresentanti di ogni singolo comune aderente, il terminale delle rispettive necessità. Se, come si diceva, il Comune diventa prioritario nell’organigramma istituzionale, saranno dunque questi rappresentanti, quali delegati dei rispettivi comuni, ad agire in nome e per conto dei propri concittadini. E’ da sottolineare, comunque, che tale organismo dovrà lavorare in un’ottica a costo-zero e non potrà operare che in una logica di revisione totale degli attuali assetti politici e istituzionali.

 

In altre parole proporre un’alternativa alle C.d.V. significa implicitamente voler affermare con forza che mai come ora è necessario tornare a parlare di una moderna “riforma istituzionale” che contempli non solo le varie forme di collaborazione fra comunità, ma che riscriva le dinamiche fra provincia e comuni, fra città e paesi, così come all’interno dei rispettivi consigli comunali al fine di ridare vita alla partecipazione, concedere di nuovo alle minoranze il senso di esistere e alla politica, più in generale, la possibilità di guardare ancora a testa alta i propri concittadini.

Referendum Comunità di Valle (1)

Riflessioni per una scelta

Mp – 2 febbraio 2012

 

Come si ricorderà, la legge nr. 3 istitutiva delle Comunità di Valle è del 16 luglio 2006, mentre è di parecchio tempo prima il ragionamento sul se e sul come modificare i Comprensori.

Dunque come minimo sei anni sono passati da quella data e, incredibilmente, la frase più ricorrente fra gli addetti ai lavori è ancora la medesima: “c’è bisogno di altro tempo per farle funzionare”. Il paradosso è lampante quando a sostenerlo sono i medesimi politici che dovrebbero veramente farle funzionare. Tuttavia visto che ciò accade, questo è uno degli elementi principali per comprendere che - al di là dell’ostinazione nel voler a tutti i costi salvare la faccia - la difesa di “queste” Comunità di Valle da parte di certi politici, per esteso di pressoché tutta la maggioranza di governo in Trentino, è diventata ormai insostenibile.

 

Sin dal periodo della gestazione della legge e poi ancora negli anni successivi, i fautori di detto impianto legislativo andavano affermando che il nuovo livello istituzionale non avrebbe comportato costi aggiuntivi per i cittadini e che gli apparati burocratici delle 15 Comunità di Valle in rapporto agli 11 vecchi Comprensori avrebbero funzionato “a costo zero”. Lo andava ripetendo da sempre pure il governatore Lorenzo Dellai, il quale da un anno a questa parte ha decisamente smesso di citarlo e soprattutto di contrapporlo come valore aggiunto nei confronti di coloro che obiettavano quanto meno perplessità verso l’istituzione di una Comunità di Valle così congeniata. Ora è chiaro che l’operazione – ammesso che mai riesca a sopravvivere a se stessa – non sarà affatto “a costo zero” e che al di là di altre considerazioni di merito, l’aumento incontrollato e non quantificabile della spesa pubblica non si potrà mai conciliare con il rigore dettato dalla preoccupante contingenza economica nella quale il Trentino, per rendere credibile il mantenimento della propria autonomia, dovrà dimostrare più di altre regioni le sue reali capacità di economicità e di efficienza. L’hanno capito bene molti sindaci che, più o meno manifestamente, sono contrari (a ragion veduta e non per motivi ideologici) al mantenimento delle Comunità di Valle.

 

Non si mette in dubbio la necessità di dare adeguata dignità alla storia dei territori – dei comuni e delle valli, nella fattispecie del Trentino – alla loro specificità, cultura e identità, tuttavia la strada intrapresa con le Comunità di Valle non è che la classica risposta sbagliata ad un bisogno reale. Riteniamo che i livelli istituzionali attualmente riconosciuti dalla Costituzione (nel nostro caso comuni, Provincia autonoma, Regione) siano più che sufficienti a dare ristoro ad un bisogno di autogestione responsabile del territorio. Semmai, visto il periodo difficile che stiamo vivendo, si impone uno sforzo nuovo in apertura e saggezza affinché si allarghi ulteriormente il numero dei comuni che hanno sinora dato prova di esempi virtuosi nel consorziare i propri servizi e risorse al fine di realizzare risparmi preziosi a favore dei cittadini. Esistono altri metodi, ben diversi da quelli sin qui proposti con le Comunità di Valle, per raggiungere obiettivi di economicità e di qualità che mettano in comune ed in rete bisogni e risposte della gente e dei territori, lasciando inalterata – se non addirittura stimolata – la partecipazione democratica e il senso di appartenenza, ora messi a dura prova anche dalla costituzione del livello intermedio. Né è sufficiente, come sostengono alcuni, giustificare l’esistenza delle Comunità di Valle con la circostanza che esse hanno sinora fatto funzionare ad esempio i servizi sociali, la raccolta dei rifiuti, l’edilizia agevolata, oppure i servizi di vigilanza…Già lo facevano i Comprensori, in alcuni casi pure egregiamente, anche se, ovviamente, non parliamo di ritornare ai Comprensori, ma di superarli in “qualcosa” che abbia l’intelligenza e la lungimiranza di “disegnare” nella sua struttura politica e amministrativa il Trentino del Terzo millenio.

 

In tal senso non possiamo nascondere il fatto che il futuro della nostra terra dovrà confrontarsi necessariamente con una costante ed inevitabile pressione all’accorpamento di minuscole realtà che sarebbe quanto meno fuori dal tempo ostinarsi a organizzare come “fotocopie” istituzionali di comuni ben più grandi demograficamente ed economicamente. I costi dell’apparato, infatti, nel prossimo futuro saranno determinanti sulla qualità dei servizi erogati e i primi a subire le conseguenze di un eventuale mancato ridimensionamento sarebbero proprio i numerosi piccoli comuni della nostra provincia sparsi molto spesso in valli periferiche e svantaggiate.

Realizzare dunque un sistema (assolutamente non contemplato dalle Comunità di Valle, se non addirittura da esse osteggiato) di veri incentivi economici all’unione comunale di servizi e in prospettiva alla libera fusione degli stessi comuni in ambito omogeneo - lasciando comunque inalterate le singole municipalità - non può che essere la via alternativa e percorribile in un Trentino che culturalmente riteniamo pronto per un passo “rivoluzionario” del genere. E quindi con questo, ripensare la formula della sinergia fra i nostri paesi al fine di semplificare, ridurre e riorganizzare gli apparati comunali, consorziando in un organismo agile di servizio, ove è possibile, tutti i settori attualmente in capo ad ogni singolo comune: segreteria, ragioneria, anagrafe, ufficio tecnico, ecc. E’ forse fantascienza? In fondo ai cittadini interessa che la “macchina” funzioni al meglio per le proprie esigenze, che sia il più possibile economica e al contempo garantisca un servizio di qualità, mentre interessa molto meno come e da chi questa macchina viene gestita.

La disaffezione, lo scarso interesse, la ridotta affluenza alle urne all’atto della nascita delle Comunità di Valle, hanno sancito da parte degli elettori il non-gradimento della formula proposta con le Comunità di Valle, mentre al contempo hanno dato corpo alla sensazione di una perdita di sovranità comunale comandata dall’alto. Una sovranità che altrimenti - come detto - poteva essere realizzata in modo diverso e meno macchinoso nel decidere con chi consorziarsi, per quali obiettivi e con quali risorse. Dunque un’idea nata male in un’architettura istituzionale nata vecchia, con assemblee in certi casi di 100 consiglieri quando per amministrare la provincia ve ne sono solo 35, per di più in predicato di venire ulteriormente ridotti se il vento che spira a Roma in questi mesi dovesse travolgere alla fine anche i nostri pur rocciosi convincimenti.

 E’ anche per questo motivo che pur non volendo abbattere traumaticamente l’attuale impianto della Comunità di Valle attraverso l’istituto di un referendum che dimostra tutta la sua strumentalità e demagogia, non possiamo assolutamente difenderne la filosofia e l’impianto di base. Noi vediamo, infatti, nel futuro del Trentino, un percorso culturale e di pensiero che conduca a comunità di valle prima di tutto ideali; più che luoghi politici di potere, occasioni di confronto e di crescita collettiva, prima per gli amministratori e poi per i cittadini; più che finto esercizio di democrazia pletorica, una convinta strada di rinascita tesa alla moderazione dei campanili e alla facilitazione dei processi collaborativi. Un Trentino che sappia trovare gli strumenti per ridare slancio alla democrazia partecipativa nei comuni – piccoli o grandi che siano – che ridia vita e voce alle minoranze (1/3 dei comuni trentini non ha oggi alcuna minoranza), che veda al primo posto il “bene comune” contro gli interessi dei “furbetti” e dei disonesti, il ricambio della classe politica contrapposta all’occupazione permanente e totalizzante del potere da parte dei soliti noti. Un Trentino che sia certamente orgoglioso della propria storia, ma che sappia anche guardare oltre con la fiducia e i mezzi di cui ancora dispone.

 

Insomma, una storia ben diversa da quella abbozzata dalle attuali Comunità di Valle che dietro ad una struttura istituzionale ingiustificatamente pesante, complessa ed incompleta (si pensi al trasferimento del personale provinciale che non avverrà mai), dimostrano di avere un’assenza preoccupante: quella di un’anima vera che solo attraverso la cultura della mutualità e la condivisione può far vivere e crescere una comunità che si rispetti così che possa affrontare - come accadde più di cento anni fa con i primi movimenti cooperativi - con la forza delle proprie idee, senza imposizioni o automatismi, le molte difficoltà che ci riserverà ancora il futuro.

Una politica crudele

La politica di oggi è troppo misera e crudele per ospitare uomini miti e civili. E' per questo motivo che molti di questi uomini, a vari livelli - dopo aver tentato invano di portare le loro idealità e concretezze nella società - oggi lasciano o annunciano di lasciare la politica.  Questo doloroso disimpegno parla anche a chi è lontano da loro ma vive allo stesso modo lo sconforto di una stagione politica selvaggia e sconvolgente.

La caduta di Berlusconi

Mp – 17 novembre 2011

"Inutile negarlo: abbiamo di fronte un periodo di grande incertezza, economica, politica e anche culturale. Impossibile, di conseguenza, sapere quale sarà il futuro. Di certo c’è solo un dato, quello cioè che il domani sarà peggiore di ieri. Sul dopodomani, invece, possiamo forse sperare ma non mettere, ovviamente, nessuna ipoteca. Affrontare il futuro con ottimismo? Qualcuno suggerisce questa formula, valida in ogni circostanza della vita e, dunque, da adottare anche in questo caso. Tuttavia l’ottimismo fine a sé stesso è appannaggio delle persone sciocche, di coloro che rientrano nelle categorie dei poveri di spirito, degli stolti e degli sprovveduti. “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, cito a memoria.

 

Ma è vera beatitudine il bearsi nell’idea premiante di un futuro divino ancora più incerto di quello terreno? Magari arrendendosi di fronte alle avversità e non facendo nulla affinché il mondo che ci circonda cambi almeno un poco? Ecco che allora, se di beatitudini vogliamo parlare, preferisco di gran lunga un altro caposaldo del Vangelo, quello che afferma “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati”. Lo traduco da perfetto laico: chi ha sete di giustizia e opera per essa (in questa vita, ovviamente) è un benefattore della società, così come chi lavora con onestà, con scrupolo, con rispetto per il “prossimo”. Troppi malfattori ha conosciuto l’Italia in questi anni. Molti di questi hanno seduto o siedono ancora nelle Istituzioni e in Parlamento, dando credito ad un paradosso che vorrebbe riuniti in queste aule le “migliori” persone della nostra società, migliori in virtù, saggezza ed esempio.

 

Accanto ad essi, parte della gente comune non è comunque da meno. Mai si è vista tanta ipocrisia come in questo periodo! Si canta e si balla per le strade per la caduta di Berlusconi, probabilmente anche da parte di molti che fino all’altro ieri l’hanno sostenuto e incensato. Un clima che sinceramente non apprezzo più di tanto, consapevole di quanto ci sia da fare più che da festeggiare. Che dire poi di chi in tv o sui giornali attacca (giustamente) la casta dei politici per via dell’enorme divario “stipendiale” con operai e impiegati e magari poi si scopre che questi “censori” appartengono alla casta degli avvocati, o a quella dei notai oppure dei dentisti, giusto per citarne alcune che di certo non fanno la fame, anzi! Per non parlare di calciatori, star dello spettacolo, manager e quant’altro, qui è un modello sociale e un modello di sviluppo che vanno messi in discussione e rimossi, non tanto o non solo quello politico.

 

La rivoluzione francese aveva come motto “LibertéÉgalitéFraternité”. In proposito, qualcuno dirà che la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (1789), elaborata appunto in quel periodo, è ormai superata. Personalmente non ne sono affatto convinto. Oggi più che mai vanno ribaditi i principi fondamentali contenuti anche nella nostra Costituzione - giustizia sociale, uguaglianza e pari dignità - e su questi declinata coraggiosamente la politica dei prossimi anni.

Con la massima partecipazione, senza infingimenti, furbizie, opportunismi di categoria o di partito.

Amministrazione

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