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Antiche Strade è acquistabile anche online

"Antiche Strade" è acquistabile anche online presso la Casa Editrice Osiride.
http://www.osiride.it/libroantichestrade.html

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UNA PICCOLA STORIA ANTICA


La famiglia del nonno possedeva da tempo immemorabile un piccolo appezzamento di bosco in località Gardole, quella collina, per intenderci, sopra al paese, la quale sul versante opposto assume il nome molto più conosciuto di “Bosco della città”, di Rovereto s’intende.
Nonno Silvio ci andava alcune volte l’anno, o per fare legna, oppure per raccogliere il “far let”, foglie secche che radunate in teli di juta venivano poi caricate in spalla e portate a valle per essere usate come lettiera per le mucche.
Quel giorno, di buon’ora, verso le cinque del mattino, il nonno aveva preso una borsa di pezza, ci aveva messo dentro una bottiglia di rosso e due tozzi di pane del giorno prima e si era incamminato verso la collina con alcuni sacchi e un rastrello in spalla. Il passo era lento e cadenzato come quello dei montanari, così che in una ventina di minuti già il cammino era giunto quasi al termine. Il giorno si stava aprendo alle luci e ai suoni del mattino, mentre fra le foglie degli alberi uscivano di qua e di là pettirossi, merli e fringuelli disturbati dal suo passaggio.
Ad un certo punto a nonno Silvio parve di sentire qualcosa di strano, non un cinguettio o un altro rumore del bosco, ma una specie di lamento. Il nonno si fermò di colpo per sentire meglio; sospese di masticare l’amarissimo rametto di “menemaistro” che era solito tenere in bocca; trattenne il respiro e rimase in ascolto... Sì, ma sì, era proprio una sottile voce che proveniva da sotto un grande masso. Possibile?

“Accidenti, che succede? Sto forse sognando?” Esclamo fra sé e sé, molto preoccupato. Chi poteva essere? “Aiut, aiut - proseguiva intanto la voce, ora più chiara - l’è ani e ani che som chi soto e nesuni i ma mai liberà. Aiut, aiut…”.

Era probabilmente verso il 1910 - un secolo fa - e il nonno, dunque, aveva poco più di vent’anni. “Aiut, aiut”. Era un ragazzone forte e generoso, Silvio, uno che non era solito farsi molte domande quando c’era l’urgenza dell’azione. “Aiut, aiut, aiut”. Si guardò attorno cercando lui stesso nel bosco un aiuto che non poteva venire. “L’è ani e ani che som chi soto”, la voce non smetteva mai di implorare...

Nonno Silvio gettò immediatamente a lato del sentiero gli attrezzi e il suo tascapane e afferrando con le mani robuste la roccia nella sua parte inferiore, iniziò a sollevare. Facendo presa con le braccia e aiutandosi spingendo di spalla contro la parete del blocco di granito, pur con una fatica immensa uno spiraglio riuscì ad aprirsi di sotto al macigno. Da qui, ne uscì subito un serpente, un lungo e grosso serpente luccicante di colore verdastro. Il nonno lasciò la presa rimanendo letteralmente di stucco. Senza un grazie o un minimo gesto di riconoscenza, il serpente sogghignando si avventò sulla borsa del nonno e si impadronì del pane. In pochi bocconi fece sparire quel poco che c’era, poi si avvicinò a lui con fare minaccioso reclamando ancora da mangiare. “O mi dai qualcos’altro oppure ti faccio morire, qui subito, con un morso al veleno”, sibilò il rettile dagli occhi fiammeggianti mettendo bene in mostra i due lunghi denti affilati. Il nonno sembrava perduto: nulla aveva più con sé per sfamare l’orribile bestia che gli stava ritta davanti a poca distanza.
Silvio, però, non era un uomo qualunque, men che meno un pavido, uno che fuggiva di fronte ai pericoli e alle responsabilità. Certo, forse poteva scappare a gambe levate lasciando quell’animale lì nel bosco con il rischio che potesse far del male a qualche viandante. Forse poteva con rapidità liberarsi dall’impaccio in cui si era cacciato solo per uno slancio di generosità. Forse, ma non fece nulla di tutto ciò. Ripresosi dallo spavento, non si perse affatto d’animo. Lasciò che il serpente si avvicinasse minaccioso: poi con una mossa fulminea, nonno Silvio lo agguantò per il collo stringendolo con la forza della disperazione nonostante i tentativi del rettile di divincolarsi...


La continuazione di questo racconto la potete leggere, assieme ad altre storie, in “Antiche strade” il mio ultimo libro, scritto assieme a mio padre. Il libro è disponibile in ogni libreria, e se non presente al momento, su ordinazione.
ANTICHE STRADE di Flavio e Maurizio Panizza: 244 pagine, Edizioni Osiride (2011)
ISBN-10: 8874981457 ISBN-13: 978-8874981458

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COMPAGNO ROMANO,

comunista e galantuomo

Un idealista, un perseguitato per ragioni politiche, un uomo onesto alla fine rinchiuso in prigione e processato. Era la fine luglio del 1928, anno VI dell’Era fascista.
Il protagonista: Romano Tovazzi, “Chechi” secondo il soprannome di famiglia. Era nato il 13 agosto 1899 a Volano, quindi in Tirolo, nell’Impero Austro-Ungarico, e aveva combattuto come Kaiserjäger in Armenia, durante la Prima Guerra Mondiale, con molti di quelli che poi passeranno alla storia come i “Ragazzi del ’99”, i più giovani soldati chiamati alle armi. Memore delle tragedie belliche e della necessità di dare voce e forza alle masse operaie e contadine, ben presto – in particolare dopo il 1922 con l’ascesa al potere di Mussolini e nel ’24 con il delitto Matteotti - aveva maturato la convinzione che i principi di uguaglianza, giustizia e libertà dovevano essere garantiti con un impegno personale diretto e riscattati da un regime autoritario e repressivo che dimostrava giorno dopo giorno di voler portare l’Italia e gli italiani verso il baratro della dittatura. Romano, attraverso compagni di ideali e di lotta venne così introdotto negli ambienti trentini del Partito Comunista Italiano, fondato a Livorno nel 1921, e qui iniziò una militanza convinta, seppur – ovviamente - in clandestinità, che lo portò a diventare un punto di riferimento e di propaganda nel suo paese di Volano.

L’Organizzazione Comunista, con “Leggi eccezionali” era stata sciolta e dichiarata fuori legge già da qualche anno, quando Romano Tovazzi fu improvvisamente arrestato. Infatti, bastava poco al regime fascista per portare in carcere chi era sospettato di attività sovversiva. Bastava, (come si legge in molti rinvii a giudizio dell’epoca), criticare la politica di Mussolini, oppure definire “pagliacciate le sfilate fasciste” o dichiarare che “così non si poteva più andare avanti” oppure, semplicemente, tenere in casa, ad esempio, l’inno “Bandiera rossa” per essere sottoposti ad indagini giudiziarie.
Romano, che aveva sempre detestato il fascismo e rifiutato qualsiasi tessera o compromesso, già era conosciuto in paese come uno che con coraggio parlava chiaro ma, al tempo stesso, come uno che proprio per questo motivo poteva creare guai a sé e a coloro che gli erano vicini. Per questo motivo era stato, in un certo qual modo, bandito da qualsivoglia attività pubblica, da benefici sociali per la famiglia, e quello che era più grave, condizionato nella ricerca di un qualsiasi lavoro, in quanto difficilmente a quell’epoca si dava un’occupazione ad un “comunista” dichiarato.
Romano, che non aveva certo alle spalle una famiglia su cui contare economicamente, si era visto così costretto ad inventarsi, da qui in avanti e fino alla fine della guerra, i più disparati lavori saltuari i quali messi assieme non davano mai, tuttavia, la certezza di un salario a fine mese. Fu operaio, manovale e contadino, ma anche per necessità e per sfamare i figli, pescatore, cacciatore, raccoglitore di funghi…

Fu arrestato all’alba con altri 27 trentini - molti dei quali di Riva del Garda e di Arco, alcuni di Trento, uno di Villa Lagarina e due di Nomi - tradotto a Roma, a Regina Coeli e giudicato colpevole dal Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, il 24 luglio del 1928.
Quest’ultimo era stato costituito per legge due anni prima e con esso in sostanza il regime si forniva di un formidabile strumento per farsi giustizia da sé contro l’opposizione politica e dopo la soppressione dei partiti che si erano schierati contro il fascismo. Con tale strumento “giudiziario”, votato quasi a unanimità dal Parlamento, il fascismo amministrava in proprio la giustizia contro i suoi oppositori, mentre con la stessa legge fu reintrodotta la pena di morte per alcuni reati a carattere politico. Il Tribunale Speciale operava secondo le norme del Codice Penale per l’Esercito sulla procedura penale in tempo di guerra. Contro le sue sentenze non era possibile alcun ricorso o altra impugnazione.
Nel corso dei processi era consentita la difesa di fiducia dell’imputato, ma erano pochi i legali che si prestavano a ciò, e quei pochi domandavano compensi praticamente impossibili da sostenere per la stragrande maggioranza dei prigionieri. Ovviamente Romano non era nelle condizioni economiche di poter sostenere una difesa di fiducia. Gli fu così assegnato – alla pari di molti altri imputati – un difensore d’ufficio che non fece altro che appellarsi alla “clemenza della corte”.
Com’era prassi consolidata dei Regime di polizia, di solito le imputazioni non si limitavano a un solo motivo per giustificare l’arresto di un antifascista. In genere, tutti i denunciati erano dipinti dalla polizia locale come elementi socialmente pericolosi, disturbatori della quiete pubblica, antisociali, quando non si aggiungevano qualifiche disonoranti inventate di sana pianta. Il tutto per far apparire l’antifascista come elemento poco gradito alla società.
Leggiamo, infatti, dal verbale della sentenza del Tribunale Speciale, che gli imputati, fra cui Romano Tovazzi, si erano macchiati di molti delitti previsti dal Codice Penale “per aver concertato e stabilito di commettere – con mezzi e propaganda violentissima contro l’organizzazione statale da esplicarsi specialmente colla diffusione di giornali, manifesti, opuscoli e proclami stampati e diffusi clandestinamente, organizzazione segreta a carattere militare, sovvenzionata anche dall’estero, spionaggio militare politico, propaganda antimilitarista, ecc. – fatti diretti a mutare violentemente la Costituzione dello Stato e la forma di Governo ed a far sorgere in armi gli abitanti del Regno contro i Poteri dello Stato”.
Più in particolare, per quanto riguarda il nostro protagonista, il verbale riporta: “Nei riguardi di Tovazzi Romano dal rapporto della Questura di Trento risulta che costui fece parte del Partito Comunista e svolse a Volano e paesi limitrofi occulta propaganda. Il teste Huez Quirino afferma che il Tovazzi fu uno dei più attivi propagandisti in Volano; ed il teste Battisti ha dichiarato che Tovazzi si interessava della distribuzione di tessere del Partito e che partecipava alle riunioni segrete. Il suo nome nei documenti trovati nella valigia del Bartolozzi (il presunto capo del Partito Comunista per il Basso Trentino, N.d.A.) figura fra i fiduciari del Partito. La prova quindi della sua partecipazione all’attività della organizzazione comunista è raggiunta”.
Conclude la Commissione Istruttoria presso il Tribunale Speciale per la difesa dello Stato in Roma: “Per questi motivi, si pronuncia l’accusa contro Bartolozzi Augusto, Sandri Ferruccio, Dusatti Giacomo, Venturini Ezechiele, Marzenta Adolfo, Fambri Narciso, Fambri Ottavio, Miori Italo, Tovazzi Romano e Perghem Giuseppe in ordine ai delitti ascritti. Il Tribunale, altresì, dopo attenta valutazione, ritiene colpevoli i suddetti imputati e li condanna..."

La continuazione di questo racconto la potete leggere, assieme ad altre storie, in “Antiche strade” il mio ultimo libro, scritto assieme a mio padre. Il libro è disponibile in ogni libreria, e se non presente al momento, su ordinazione.
ANTICHE STRADE di Flavio e Maurizio Panizza: 244 pagine, Edizioni Osiride (2011)
ISBN-10: 8874981457 ISBN-13: 978-8874981458

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UOMINI IN FUGA


Venne chiamato armistizio, ma in realtà fu il caos più totale, la fuga vergognosa del re e del governo a Brindisi sotto la protezione degli americani, lo sbandamento dell’intero esercito lasciato dall’8 settembre ‘43 in poi alla mercé degli ex alleati tedeschi senza ordini né disposizioni ufficiali.
In questa babele militare e civile, la guerra non era per niente conclusa, l’armistizio, in pratica, non corrispose affatto alla pace, anzi, da qui in avanti il conflitto sarebbe diventato ancora più violento per la rabbia e le ritorsioni dei tedeschi nei confronti degli italiani considerati “traditori”.
In tale clima di estrema incertezza, molti soldati e ufficiali da subito scelsero la via del “si salvi chi può”, gettando i vestiti militari e indossando quelli borghesi. Coloro, invece, che attesero in divisa ordini che non arrivarono mai, furono fatti prigionieri dai tedeschi, ammassati, e poi fatti salire su treni merci con destinazione i campi di concentramento del Reich.
Avvenne che durante un bombardamento notturno in Vallagarina, una bomba colpì la linea bloccando il transito ferroviario. Per questo motivo, un treno di prigionieri diretto in Germania venne fatto fermare alle porte di Calliano, mentre più avanti squadre di genieri iniziavano i lavori di ripristino della linea.
Il lungo convoglio era fermo sul limitare della campagna nella tiepida notte di fine settembre. In quel momento, lungo la ferrovia assieme ai tedeschi della scorta vi erano anche alcuni carabinieri, ancora regolarmente in servizio, appoggiati nei loro controlli da militari in borghese. Fra questi ultimi, prestava servizio pure Vittorio Ulisse Poiaunich, quasi un fratello per me, avendo lui vissuto per qualche anno presso la famiglia Panizza.
Non si è mai saputo come, fatto sta che un carro che avrebbe dovuto essere piombato, in realtà aveva la porta socchiusa. Era passata da poco la mezzanotte quando da quella stretta apertura qualcuno, improvvisamente, si affacciò. Ulisse che era lì a pochi passi se ne accorse: avrebbe potuto chiamare i tedeschi, oppure richiudere il carro e farlo sigillare di nuovo. Invece no. Ulisse, era un ragazzo sensibile, costretto a quel compito solo dagli eventi della guerra: incrociò gli occhi impauriti di chi stava all’interno, li aiutò ad aprire la porta e li fece scendere e nascondere sotto la massicciata. Solo allora, abbozzando un sorriso rassicurante, chiese sottovoce chi fossero. Si sentì rispondere in dialetto trentino “Sem presoneri”: uno, infatti, era di Cadine, un piccolo paese poco sopra Trento. Erano in cinque, ancora in divisa da carabiniere. Per loro fortuna nessun militare di guardia si accorse della fuga. Ulisse li tranquillizzò dicendo loro che poco dopo li avrebbe portati in salvo. “Seguitemi, senza fare rumore, presto, presto!”Si allontanarono in fretta dalla ferrovia mentre ogni passo segnava sempre più per loro la distanza fra la prigionia e la libertà.
Da Calliano a Volano la strada delle campagne non era lunga: tre chilometri, forse qualcosa di più. Quella notte c’era pure la luna piena. Ulisse guidava per i campi il piccolo drappello di ragazzi in assoluto silenzio, consapevole del grosso rischio che stava correndo. Dopo una decina di minuti di cammino si udì in distanza un forte fischio: era il treno che ripartiva lasciando inaspettatamente a terra cinque passeggeri ai quali la sorte aveva assegnato un destino ben diverso da quello degli altri compagni di viaggio.
Il ritorno a Volano, tutto sommato fu tranquillo, nessun incontro pericoloso, nemmeno il “Pippo”, il solitario aereo “picchiatello” si fece sentire quella notte.
Ulisse, a casa, non era atteso a quell’ora, men che meno in compagnia di cinque prigionieri in fuga. Tutta la famiglia, tuttavia, si mobilitò per accogliere e rivestire in abiti borghesi i giovani carabinieri. Quattro di essi, ringraziarono calorosamente dell’aiuto e decisero alle prime luci dell’alba di ripartire per i loro paesi di origine Di loro non si seppe più nulla, anche se, per la verità, qualche “voce” riferì in seguito che erano stati di nuovo catturati. Il quinto, di nome Gaspare Di Stefano – siciliano di Castelvetrano – accettò invece l’offerta di ospitalità, ritenendola meno pericolosa di un difficile viaggio di rientro lungo tutta l’Italia.
Ulisse, seduta stante, decise allora di accompagnarlo presso di noi, a casa Panizza, in via Volpare e, per non essere visti, di passare dall’orto e di sistemarlo sul fienile. Non erano questioni da prendere così alla leggera: in casa, infatti, erano alloggiati dei soldati tedeschi per cui la nostra famiglia era ben consapevole del rischio che stava correndo. Tuttavia, tutti noi fummo d’accordo e accettammo di correre quel rischio. Mamma Candida, cercando di non farsi vedere, saliva due volte al giorno la ripida scala di legno per portare da mangiare a Gaspare il quale, nel frattempo, si era ricavato un nascondiglio fra il fieno...

La continuazione di questo racconto la potete leggere, assieme ad altre storie, in “Antiche strade” il mio ultimo libro, scritto assieme a mio padre. Il libro è disponibile in ogni libreria, e se non presente al momento, su ordinazione.
ANTICHE STRADE di Flavio e Maurizio Panizza: 244 pagine, Edizioni Osiride (2011)
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